Gioco d’azzardo, la dipendenza di chi non ha altri piaceri

STEFANO MASSARELLI
Molte persone afflitte dalla «febbre del gioco d’azzardo» riferiscono di provare la sensazione di vivere come all’interno di una «bolla», una sorta di mondo ovattato scandito dal gioco dove è possibile provare sensazioni di gioia, speranza, dolore e rabbia, mentre al di fuori tutto appare piatto e inutile.
Ma a destare preoccupazione è il fatto che molti di loro non identificano il gioco come un problema, se non quando la situazione è ormai compromessa al punto da aver mandato a monte i risparmi e gli affetti di una vita intera.
«A livello clinico giungono spesso soltanto i casi estremi. Anche per questo è probabile che il fenomeno della patologia da gioco d’azzardo sia ampiamente sottostimato», avverte Laura Bellodi, Preside della Facoltà di Psicologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e responsabile del Centro disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo presso l’Ospedale San Raffaele Turro. Anche per questo è importante imparare a riconoscere i segnali di pericolo sin dall’inizio, spegnendo sul nascere qualsiasi atteggiamento sbagliato.

Professoressa, gli italiani amano giocare d’azzardo, al punto che la rivista Economist ha stimato che perdono ogni anno circa 24 miliardi di euro in scommesse sportive, videopoker, «gratta e vinci» e gioco del lotto.

Ma cosa distingue un giocatore d’azzardo comune da un giocatore patologico?
«La differenza tra un giocatore d’azzardo comune e uno patologico sta principalmente nell’intensità e nella frequenza con cui l’attività del gioco viene ricercata e praticata. Mentre una persona normale sa riconoscere le situazioni di rischio e riesce a porre un freno quando questo diventa troppo alto, un soggetto con la patologia del gioco non riesce a porsi dei limiti e vive nella totale indifferenza rispetto alle potenziali conseguenze negative del proprio modo di giocare.

Cosa porta un giocatore d’azzardo occasionale a sviluppare la patologia del gioco?
Stiamo cominciando oggi a comprendere i meccanismi che possono far «deragliare» alcuni soggetti verso una forma di gioco d’azzardo patologico che ha ricadute su tutti gli aspetti della vita. Le ricerche nel campo delle neuroscienze compiute negli ultimi 15 anni individuano una base genetica comune, responsabile di un difetto nella capacità di provare piacere. Sarebbe proprio l’incapacità di provare emozioni piacevoli nella vita quotidiana a spingere alcuni soggetti a ricercare emozioni forti, che alcuni ritrovano nel gioco d’azzardo, altri nella droga, altri in entrambi.

Quali sono i principali «segnali» che consentono di individuare un giocatore patologico?
«Sembra scontato ma non dobbiamo sottovalutare alcuni elementi concreti come il fatto di veder “alleggerito” il proprio portafoglio o il proprio conto in banca, oppure il fatto di contrarre dei debiti per continuare a giocare. Dal punto di vista personale, invece, un giocatore patologico utilizza il gioco come valvola di sfogo contro qualsiasi difficoltà della vita quotidiana, e che dirotta interamente sul gioco e sulle emozioni che questo procura la gestione dei propri stati emotivi, che siano essi di ansia, tristezza o depressione».

Come si cura questa patologia, una volta identificata?
«Dal punto di vista della gestione comportamentale, i gruppi di mutuo aiuto, così come avviene con gli alcolisti anonimi nel caso dell’alcol, hanno una funzione significativa nel far maturare nella persona la consapevolezza che si è di fronte a un problema che non si può risolvere da soli, ma che richiede una gestione integrata. Questo rappresenta il primo importante approccio, dopodiché alcuni farmaci possono venire in aiuto, come gli agonisti dopaminergici che agiscono sul corretto funzionamento dei circuiti mentali legati alla ricompensa, oppure i farmaci che agiscono sul neurotrasmettitore serotonina che, attraverso un effetto indiretto, modulano i meccanismi nervosi che regolano le capacità di provare piacere tenendo a freno alcuni comportamenti impulsivi».

In che modo un familiare può essere d’aiuto nella gestione di questa patologia?
«Un valido aiuto è quello di evitare di instaurare delle conflittualità con chi è affetto da malattia dei gioco, ad esempio scatenare litigi, arrabbiature o sensi di colpa. Purtroppo il vecchio schema secondo cui il “vizio” deve essere condannato non ha alcun senso in questi casi, poiché ci troviamo di fronte a una vera e propria patologia, che necessita di cure mediche. Il ruolo della famiglia deve essere invece quello di indirizzare la persona interessata verso centri specializzati e contribuire, per quanto possibile, a tamponare eventuali conseguenze negative ricorrendo anche a misure drastiche di restrizione di accesso al denaro».

Data una certa predisposizione genetica a questa malattia, esistono quindi categorie di persone più a rischio di altre?
«Certamente le persone che in famiglia hanno avuto qualcuno con esperienze negative nell’ambito del gioco d’azzardo sono a maggior rischio di altre. Per il resto le condizioni che più si associano al gioco d’azzardo patologico sono quelle della dipendenza, come l’alcolismo, la dipendenza dalla droga e in particolar modo dalla cocaina. Non dimentichiamo poi che la dipendenza dal gioco d’azzardo non coinvolge soltanto le slot machine o il “gratta e vinci”, ma anche la borsa. Ed è proprio nel settore della finanza che si registrano molti casi di dipendenza patologica, con conseguenze economiche anche peggiori per via delle grandi somme di denaro che è possibile perdere».

Un’indagine del CNR ha mostrato che la febbre del gioco è in forte crescita tra gli adolescenti italiani.
«Nell’età dell’adolescenza le strutture cerebrali deputate all’inibizione dei comportamenti potenzialmente pericolosi non sono ancora completamente formate. Per questo motivo gli adolescenti appaiono spesso impulsivi, meno razionali e possono cadere più facilmente vittime della patologia del gioco d’azzardo. La capacità autocritica di fermarsi di fronte al pericolo negli adolescenti ancora non è ben strutturata, per questo motivo starebbe a noi difenderli dalla febbre del gioco in questa delicata fase di vita».

da La Stampa

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