Sanità e tossicodipendenza: uno sguardo al passato.

Lo svolgimento del programma terapeutico dei tossicodipendenti negli anni 80 era garantito dall’USL tramite il G.O.T. che operava attenendosi a leggi, regolamenti, circolari statali e regionali con lo scopo di uniformare le modalità di erogazione delle prestazioni in tutti i presidi territoriali che si occupavano di tossicodipendenza. Per ogni periodo doveva essere fissato dalla USL (consultando GOT e operatori dei vari presidi) un numero massimo di utenti in trattamento, sulla base delle risorse presenti al momento; era stabilito un tetto massimo di numero di utenti da trattare e la somministrazione delle terapie erano effettuate presso i presidi ospedalieri da due infermieri in orari prestabiliti: un’ora la mattina presto ( a richiesta da valutare)  e due ore nel tardo pomeriggio (tutti i giorni compresi i festivi).

Il GOT stabiliva programmi terapeutici individuali; tali programmi , uguali per ogni presidio, venivano sottoposti a verifica periodica ed ogni qualvolta si presentava la necessità di modificare il programma, ciò poteva avvenire alla luce della documentazione del singolo caso: ogni modifica doveva esser registrata su una cartella clinica e approvata di volta in volta dal GOT stesso.

Il servizio si avvaleva della collaborazione del volontariato, nell’ambito delle rispettive competenze ed in ottemperanza alle vigenti disposizioni legislative.

L’ accertamento dello stato di tossicodipendenza era indispensabile per poter accedere al trattamento. Il trattamento metadonico era praticabile solo in casi di tossicodipendenza stabilizzata da oppiacei; ma l’anamnesi e la presenza di oppiacei nelle urine non erano considerati dati sufficienti per fare diagnosi di tossicodipendenza stabilizzata: per ogni ammissione (o riammissione) era necessario ricorrere al test del Naloxone (protocollo in uso presso servizio autonomo di tossicologia di Firenze) o ad un periodo di osservazione clinica di almeno 24 ore da attuarsi presso uno degli ospedali del territorio. Nessun trattamento analgesico-narcotico (metadone) poteva essere intrapreso senza gli accertamenti previsti e al di fuori di un programma terapeutico globale che non si limitasse al solo intervento farmacologico. Non erano ammesse variazioni di terapia al di fuori del programma concordato senza aver ridiscusso il caso in equipe: in particolare gli addetti alla somministrazione non potevano assolutamente prendere decisioni autonome. L’assunzione del metadone doveva avvenire di fronte all’operatore il quale doveva ben accertarsi che non vi fossero manipolazioni dal parte del paziente. Nei casi in cui il GOT riteneva necessario e opportuno coinvolgere un medico esterno, questi doveva essere di norma il medico curante. Tale medico doveva partecipare alla stesura del programma e mantenere con il servizio gli opportuni contatti per controlli e verifiche.

Quando possibile ( e obbligatoriamente in caso di minori) poteva essere individuata una persona di famiglia che partecipasse al processo terapeutico. In caso di malattia, documentata con certificato medico, la persona referente era autorizzata al ritiro del farmaco se considerato idoneo a garantire corretta somministrazione del farmaco a domicilio.

La positività delle urine agli oppiacei comportava una serie di ammonimenti e in caso di recidiva la sospensione del trattamento; e in ogni caso la positività non comportava aumento di dosaggio. Il paziente doveva rilasciare il campione di urina a richiesta del medico e dell’operatore: in caso di rifiuto o palese tentativo di manipolazione questi venivano annotati nella cartella clinica. Il test mancato era considerato positivo alle sostanze.

Prima di essere ammesso al programma terapeutico il soggetto dipendente doveva dimostrare volontà e accettazione incondizionata dei regolamenti del centro impegnandosi a mantenere una condotta corretta verso gli operatori ed altri utenti. Dopo un primo colloquio di orientamento ed un periodo di adattamento il paziente poteva sottoscrivere il “contratto terapeutico”. Il profilo psicosociale del paziente deve essere reindagato e annotato inizialmente ogni 3 mesi durante il primo anno di trattamento ed ogni sei mesi negli anni successivi.

Un paziente, per poter essere ammesso al programma di stabilizzazione con metadone deve avere più di 18 anni ed una storia di almeno 2 anni di uso massiccio e costante di consumo di sostanza (nel caso di minori era necessaria autorizzazione di genitori o di chi ne fa le veci)

Nei limiti della disponibilità del servizio potevano essere trattati utenti inviati da altri centri purché muniti di programma terapeutico e copia degli accertamenti eseguiti (con congruo preavviso del centro inviante); non erano possibili trattamenti “una tantum” a base di metadone: in caso di manifesta astinenza il soggetto poteva scegliere di chiedere aiuto al Pronto Soccorso più  vicino (che valutava l’eventuale trattamento solo dopo accertamenti e prassi prevista).

Questo articolo vuole fungere da piccola memoria storica su quello che voleva dire lavorare in un servizio per le dipendenze o esserne paziente. Spesso i diritti acquisiti nel tempo (frutto di battaglie che alcune persone, credendo nel diritto alla cura degli individui, hanno intrapreso) vengono dati per scontati e non si da loro l’importanza che  hanno. Questo articolo in tale momento storico di forte crisi e smantellamento della sanità pubblica,  vuole essere anche di riflessione e monito perchè spesso il passato ritorna se i cittadini smettono di combattere e vigilare su quanto di prezioso è stato conquistato.

Valentina Torri (Psicologa c/o PCA)

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