I sensi di colpa nei programmi terapeutici delle comunità di recupero

Prof. Cristiano Castelfranchi

a cura di Davide Toschi
Gli eventi per cui ci assumiamo una responsabilità possono essere da noi causati intenzionalmente o anche inintenzionalmente. Ciò che è necessario però sia presente è la credenza che noi siamo stati capaci di farlo, quindi di essere stati nella condizione di potere essere determinanti nella realizzazione del fatto e, indispensabile è che ci sia, più o meno consapevolmente, la credenza che, così come si è stati capaci di farlo, ci fosse stata la stessa capacità di evitarlo. Questo, curiosamente si verifica anche per quel che concerne eventi, accadimenti, fatti del tutto casuali. Che ci si senta responsabili di qualcosa (ad esempio se scivolando in un negozio si è causata la rottura di un oggetto che stavamo osservando), di cui non si avrebbero responsabilità oggettive, quan-tomeno non di natura intenzionale è spiegabile con l’aver comunque causato un danno a qualcuno: nella fattispecie si è compromesso lo scopo del commerciante di vendere il tale oggetto. Pur avendo agito inconsapevolmente nella determinazione del risultato, ci si sente responsabili (colpevoli?) per quello che è accaduto. E’ innegabile infatti, che pur nella totale involontarietà del gesto, il risultato di compro-missione dello scopo del negoziante non sarebbe venuto a verificarsi, se quello stesso giorno ci fossimo per esempio recati in gita in un’altra città evitando così di poterci trovare lì nel momento dello “scivolamento”. Si trovano quindi sempre dei motivi per cui ci si possono attribuire delle responsabilità e quindi delle colpe, anche riguardo fatti nei quali la nostra volontà non è stata minimamente influente. Non che ci sia rapporto diretto tra responsabilità e colpa: nel senso che ci si può sentire responsabili di qualcosa, pur senza necessariamente crearcene un senso di colpa. Ma in proposito dell’attribuzione del tutto scissa dalla presenza di responsabilità, sia pur minime, infinitesimali o cabalistiche che si vogliano considerare, si consideri l’efficace esempio di Castelfranchi circa il paziente dimesso sano dopo gli accertamenti clinici svolti contemporaneamente ad uno sconosciuto vicino di camera che ha invece dei risultati compromettenti il suo stato di salute: ebbene anche in questi casi Castelfranchi sostiene che si possano produrre nel paziente sano (ovviamente) dei sensi di colpa. A suffragio di quest’ipotesi, che va quindi contro una serie di affermazioni precedenti che portavano a ritenere indispensabile la presenza di alcuni fattori, quali la responsabilità nella determinazione di una compromissione di scopo dell’altro, Castelfranchi basa la propria convinzione introducendo un nuovo paradigma d’indagine: il principio di equità. Da qui, la compromissione di questo senso di equità, che è per altro fattore individuato come biologico nella natura umana e base indispensabile per la considerazione del processo di determinazione dell’altruismo, determinerebbe il senso di colpa solo sul presupposto di disequilibrio. Un paradigma etico, quindi: partendo dalla considerazione egualitaria si introduce un meccanismo di auto-colpevolizzazione nel momento in cui ci si trova a contatto con una realtà che non soddisfa il nostro innato (quindi biologicamente determinato) senso di equità. Trovo insoddisfacente, la teoria secondo la quale si potrebbe rintracciare la causa prima di questo senso di colpa nella teoria probabilistica che si rifà ad una responsabilità che l’individuo fortunato si riconosce per avere con la propria fortuna determinato una minor probabilità di fortuna negli altri soggetti del mondo. Mi adagio quindi sulla ipotesi che il principio di equità abbia nella sua stessa formulazione (soprattutto nelle caratteristiche biologiche) le dimostrazioni della sua veridicità. Le premesse Da una lunga osservazione e personale conoscenza di soggetti che hanno sperimentato su loro stessi pragrammi terapeutici; da un contatto ed un interesse con il mondo delle tossicodipendenze e delle devianze in genere; da una frequentazione ed impegno in diverse ipotesi di aiuto (condivisione?) ai problemi più macroscopici delle più visibili forme di de-vianza; da un diretta esperienza in uno dei centri di accoglienza della prin-cipale struttura di recupero del centro Italia; dalla collaborazione con associazioni e riviste specializzate (Senzamargine del Ce.I.S., PCA News del SIMS, In Prima Persona, Fuoriluogo, Forum droghe, ecc.), infine, dall’avvicinamento ad una possibilità di approccio – leggi psicolgia cognitiva – nuova per il mio orizzonte cognitivo (appunto!), nasce l’idea di questo breve con-fonto con la materia e con le sue possibilità di indagine in questo campo così, per me , interessante. Non vorrei qui addentrarmi nel difficile ruolo di definire quali e se ci sono forme efficaci nella cura delle malattie sociali – quali le varie dipendenze e gli abusi di sostanze, nonché una vasta area di malattie comportamentali socialmente e psichicamente determinate – anche se è di questo, generalmente che le cosiddette comunità terapeutiche si occupano. A me interessa indagare, ovviamente nella consapevolezza dei miei ristrettissimi limiti, sulle nuove vie che l’approccio con la psicologia cognitiva mi ha indicato. Utilizzare quindi la materia per dare maggior chiarezza ad una nutrita serie di elementi che scaturiscono dall’osservazione dei modelli terapeutici proposti dalle comunità. Va detto anche che, essendo sul mio territorio presenti comunità che fanno dell’approccio comportamentale la base e lo strumento principale del loro lavoro terapeutico, forse questo mi ha aiutato a convincermi della possibilità che la psicologia cognitiva potesse fornirmi nuovi ed utili strumenti di lettura. Per non perdermi però nella sterminatezza di questi argomenti e nelle innumerevoli possibilità di approccio con il problema, restringerò il campo cercando di applicare un pò delle nuove pos-sibilità interpretative a uno o due modelli terapeutici che meglio conosco. I due modelli paradigma Due, diversissimi tra loro, sono i modelli che intendo prendere a riferimento in queste brevi considerazioni. Il Ce.I.S. Centro Italiano di Solidarietà è un istituto fondato da un religioso: don Bruno Frediani. Centro importante, come dimensioni e come referenti politico istituzionali, ha le sue sedi sparse un pò per tutta la penisola. Originariamente fondato su una ipotesi di lavoro denominata “progetto uomo” che proveniva diretta-mente da una serie di osservazioni e studi che don Bruno, assieme ad un altro conosciuto prete dedito al volontariato: don Mario Picchi, avevano tratto da frequenti viaggi negli Stati Uniti dove prendevano a riferimento gli sviluppi dei primi centri di disintossicazione da oppiacei creati e sviluppati per i reduci della guerra del Vietnam. Si era agli esordi dell’approccio medico – terapeutico. Ai pochi farmaci disponibili veni-vano affiancati dei programmi di destrutturazione e ricostruzione degli indi-vidui che hanno lasciato pessime tracce nelle comunità che tuttora fanno riferimento ad approcci di tipo comportamentale. Da pochi anni, “progetto uomo”, un programma che peraltro partiva dall’assunto di essere proponibile a tutti indistintamente e da tutta una serie di interventi mirati a “ricostruire” una nuova persona dal cadavere dell’uomo che entrava a far parte del programma, è stato definitivamente abbandonato da don Bruno Frediani. Il quale, si è autoescluso dal Ce.I.S. organismo nazionale, creandosi un suo ambito di lavoro in alcune delle strutture Ce.I.S. presenti sul territorio prevalentemente lucchese. Dalle cinque o sei strutture di riferimento è quindi partito un nuovo progetto che mira a co-struire intorno all’individualità del singolo (quindi rispettandone le soggetti-vità culturali, caratteriali e, quindi, comportamentali) un personale progetto di (……….?). Di cosa, non mi è ancora dato capire.

Il Progetto Comunità Aperta, nasce invece a Pietrasanta – siamo ancora nella provincia di Lucca, ma questa volta nel cuore della Versilia storica . una quindicina di anni fa, grazie all’impegno ed alla cocciutaggine di tal Roberto Nardini.

Da allora il S.I.M.S. (Studio e Interventi sulle Malattie Sociali) che sorregge il progetto, si è impegnato a realizzare una serie di interventi sul territorio e in tutto l’ambito nazionale, che parte dal concetto di Riduzione del Danno (RD da qui in avanti), per proseguire sulla strada di una laica considerazione della realtà oggettiva, che mai ed in nessun modo andasse ad interferire con quello che è il rispet-to del singolo individuo. Offrire quindi a chi ne avesse bisogno il conforto di un centro, di persone attrezzate (culturalmente, scientificamente e organizzativamente) che potessero offrire un aiuto nel con-tingente e nella realizzazione di eventuali progetti futuri. Il PCA, non è quindi una comunità nel senso comune del termine, è un progetto di sostegno a chi ha reale necessità di aiuto, senza distinzione di intenti, senza distinzioni etiche, morali. Saltano certo agli occhi alcune grandi differenze tra le due realtà: la prima che esiste per redimere, per riportare sulla giusta strada coloro che sbagliano. E che deve quindi basarsi sul presupposto di giustezza delle proprie ipotesi, prima di tutto etico-morali, e sulla fondamentale decisione del soggetto di interrompere la sua pratica d’uso (o d’abuso, o di dipendenza) dalla/e sostanza/e. Il PCA, che parte da una logica totalmente differente e che può anche sbagliare nell’impostazione astratta, etica della cura, ma che ha certo un comportamento di pieno rispetto per le scelte dell’individuo: qualunque esse siano. Base di partenza teorico-pratica è la convinzione che il tossicodipendente sia un soggetto malato e che quindi necessiti di tutte le cure disponibili. Il fatto di considerare la tossicodipendenza come una malattia del corpo anziché, come fanno i precedenti, una malattia della mente, non viene da assunti in astratto: nel 1994, dopo anni di studi, l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha compreso le tossicodipendenze tra le malattie pienamente riconosciute.

Il PCA propone quindi una serie di interventi, primo tra i quali la terapia di mantenimento metadonico, finalizzati a permettere all’individuo – solitamente spossato dalla quotidiana pratica della droga di strada – di ricostruirsi fisicamente e psicologicamente, offrendogli quindi l’alternativa del sostituto farmacologico. Sostituto che non può essere denominato in nessun caso droga di stato, a meno che non si voglia comprendere in questa definizione anche una serie di droghe legali – dagli psicofarmaci, all’alcool ecc. – e, last but not least, l’eroina stessa (che in moltissimi casi è stata promossa dallo stesso Stato. – Anche senza andare in polemici discorsi quali quelli sulla funzione positiva dell’eroina in certi momenti storici, gli Stati Uniti in Vietnam, per esempio, ne hanno fatto un uso “legale” ed indiscriminato, ormai accertato!). Il metadone ha origine come sostituto di laboratorio dei morfinacei e venne scoperto dai chimici hitleriani negli anni della guerra mondiale, momento in cui gli alleati aveva-no impedito ai nazisti l’approvvigio-namento agli antidolorifici – leggi derivati della morfina – ed ha dimostrato e continua a dimostrare i maggiori successi negli interventi sulle tossicodipendenze . La psicologia cognitiva nei processi di destrutturazione scientificamente programmata: L’appartenenza al gruppo. E’ partendo dalle considerazioni di Rupert Brown sulle modificazioni del concetto di sé che mi sento di iniziare ad utilizzare la psicologia cognitiva per indagare meglio alcuni meccanismi propri dei processi di destrutturazione attuati nelle terapie di tipo comportamentale. Dice Rupert Brown: «(…)Una delle prime conseguenze del divenire membri di un gruppo è un cambiamento nel modo in cui vediamo noi stessi. L’inserimento in un gruppo richiede spesso da parte nostra una ridefinizione di ciò che siamo, la quale, a sua volta, può avere delle impli-cazioni per la nostra autostima. (…)» Si introduce qui uno dei requisiti essenziali per il funzionamento della destrutturazione sull’individuo. Ogni comunità di tipo comportamentale, prevede la permanenza nelle proprie strutture, con il necessario adeguamento del soggetto in trattamento alle regole ed agli impegni della comunità (gruppo) che lo accoglie. Delle regole e degli impegni ne diremo in seguito, ma qui già possiamo affermare che ciò che Brown sostiene circa il processo di riconsiderazione della propria autostima è caratteristica essenziale per essere accettati (poter far parte?) del gruppo. E su questo, in relazione a questo, sono molti gli interventi che si possono fare e si fanno. Per esempio è condizione necessaria, affinché si riconosca l’autorità degli educatori, ridefinire la propria autostima ad un livello nettamente inferiore alla stima ed alla valutazione degli stessi. Un’altra considerazione che si può fare con Brown è che l’aderenza ad un gruppo ne determina anche l’accettazione delle caratteristiche. A questo proposito mi sembra importante sottolineare la frequenza con la quale un individuo tossicodipendente (nel momento stesso della sua dipendenza, paradossalmente lo è meno in momenti diversi, o successivi) si estranea dalle definizioni proprie del suo gruppo di appartenenza. Si pensi per esempio a quante volte si sente dire: «Ma io sono diverso, (…) Non sono proprio “tossico”.» E, anche se può apparire strano, la sola accettazione di appartenenza al gruppo in cui le comunità lo comprendono è di per sé forte riduzione della propria autostima: primo, perché in ogni caso implica la rinuncia ad una soggettività, poi, perché il gruppo nel quale ti accolgono è sempre un gruppo di basso valore morale (e nel peggiore dei casi, si può essere stati relegati in definizioni assolutamente insuperabili. E’ il modello Muccioli, che considerava i tossico-dipendenti solo come soggetti vita natural durante della propria malattia. Per Muccioli, senior, non aveva ragione di esistere la denominazione di ex-!) C’è una richiesta che immediatamente si fa ad un soggetto che decide di sostenersi ad un programma terapeutico di questo tipo: è quella di affidarsi completamente e senza riserve. Di dare fiducia cieca agli operatori, agli educatori. Questa, ti viene spiegato subito, è condizione essenziale per la buona realizzazione degli obiettivi che il programma si dà. Obiettivi che sono solitamente quelli, non tanto di farti conoscere te stesso per quello che sei, che sei stato e che puoi o potresti essere, ma che sono quelli di uscire di lì conoscendo una nuova persona, che si è pentita rinnegando la precedente ed ha iniziato a considerare un altro se stesso che non conosceva e che dovrà essere, di lì in avanti, il proprio nuovo ego. Come bene si può vedere, anche il fatto di condizionare il risultato del programma a certi comportamenti del soggetto trattato, possono essere territorio di analisi dal punto di vista della psicologia cognitiva (si riscontrano le caratteristiche del senso di colpa con colpa , nel concetto preciso di responsabilità. Ma si deve, e si potrà farlo meglio in seguito, considerare che sempre qui il concetto di responsabilità è legato a comportamenti relativi ai rapporti con la comunità in senso stretto e con quelle che ne sono le proprie ramificazioni.

E’ invece totalmente disatteso, quando si tratta di elementi personali o di responsabilità individuali). Questo dell’affidarsi, è uno scoglio grossissimo per i successi dei trattamenti ed è causa di un numero molto rilevante di rinuncie al proseguo del trattamento. Il programma di cui posso portare testimonianza, come del resto tutti quelli che conosco, pur non per esperienza diretta, prevedono una fase di preparazione al programma vero e proprio, solitamente definito di accoglienza. E’ durante questa fase che si presenta appunto questo primo scoglio dell’affidamento agli operatori che ritengo di poter individuare anche come prima indispensabile tappa del processo di destrutturazione. Il termine destrutturazione (che risale appunto ai primi programmi terapeutici americani) può anche apparire, e secondo me è, piuttosto brutto, ma certo non deve sembrare inadeguato. I presupposti sui quali si poggiano infatti i programmi terapeutici della mag-gior parte delle comunità (ripeto basate sul modello comportamentale) prevedono lo svuotamento del paziente (uso il termine anche se sò che non ne converrebbero) dai contenuti del suo essere. E’ qui che si trovano ancora enormi differenze tra una visione laica-liberista e la visione morale-intransigente di molte di loro. Per me è contenuto dell’essere anche ciò che fa parte del comportamento, ciò che è la prassi quotidiana, ciò che ci rende visibili, manifesti. Con questo non voglio certo negare che ognuno di noi conviva con una serie di contraddizioni che determinate pratiche (nelle sue più svariate forme: dalle terapie psicanalitiche alle sedute spiritiche; dall’autoipnosi alla meditazione trascendentale) siano in grado di aiutarci a superare o, quantomeno, a conviverci. Ma da qui, a liberarsi di tutto per diventare nuovi soggetti scevri da problemi e compromissioni… ce ne corre! E dopo che ci si è affidati, ci si è quindi ridimensionati moralmente al ruolo dei peccatori ante-vitaem, inizia il lungo lavoro di terapia vera e propria. Primo confronto con la terapia è l’accettazione e la condivisione del senso di colpa. Vero principio basilare delle comunità Ce.I.S., il senso di colpa viene progressivamente definito e quotidianizzato nella vita di tutti i soggetti in trattamento. A partire dalle prime settimane, e sempre con maggior insi-stenza, i responsabili del programma invitano i pazienti a comunicare loro e al gruppo di appartenenza (sono dei sottogruppi determinati dagli stessi operatori) i sensi di colpa che quotidianamente li pervadono. Dalle prime volte, nelle quali i foglietti consegnati registrano una predominanza di righe bianche si passa a una sottoscrizione plurigiornaliera di cosiddetti SdC. E nell’accezione di questa, come di altre comunità a base comportamentale, essi comprendono anche la comunicazione di tutti i comportamenti trasgressivi cui si assista o di cui ci giunga notizia (forse sta qui l’origine della legislazione premiale di Dalla Chiesa … !). Ho sentito affermare da operatori stimati e (sic!) qualificati che il SdC trovava una sua naturale giustificazione d’essere nella necessità di rigetto dell’omertà, tanto diffusa tra i tossicodipendenti. Ecco un importante oggetto d’indagine per la psicologia cognitiva! Pur nella necessaria ridefinizione del SdC a qualcosa di preciso (e di comprensibile!) mi interessa vedere quali sono i meccanismi che scaturiscono da questa pratica – che come detto da nulla diventa poi sempre più frequente – quindi indagare su quali siano i motivi che spingono delle persone ad accettare che, per il proprio ed il comune bene, si passi sopra a delle credenze, che per quanto discutibili in contesti del genere – si pensi non all’omertà, ma al semplice principio di farsi i cazzi propri, o del rispetto per la responsabilità altrui, per dirlo meglio – son sempre ben radicati nella cultura e nei principi etici di un individuo normale. E’ chiaro, quindi, che alla base di questi programmi ci siano degli agenti psicologici estremamente forti. Proviamo ad individuarne alcuni oltre a ricercare le motivazioni che sono alla base di questa primaria scelta del SdC come stru-mento privilegiato di controllo da parte della struttura . Primo semplice elemento che osserviamo è il più frequente, almeno inizialmente, SdC comunicato (è terminologia comunitaria. Normalmente, credo, si direbbe confessato): la trasgressione di una regola. Abbiamo visto come la trasgressione comprenda alcuni tipici elementi costitutivi del SdC. Facciamo un semplice esempio: la regola dice che non si possono bere più di tre caffè al giorno. Il cuoco, che ha preparato il caffè per la cena, ha visto avanzare, nella caffettiera, o nel termos dove è stato riposto per essere servito a tavola, un caffè. Avendo egli bevuto già i suoi tre caffè giornalieri permessi, dovrebbe comunicare agli operatori di sentirsi in colpa per averne bevuto un altro (ovviamente, nel caso finisse il caffè avanzato anziché tirarlo via). Si badi bene: NON avrebbe dovuto dire di aver bevuto il caffè, ma avrebbe dovuto comunicare il suo SdC per averlo fatto. Prescindendo dal fatto che il caffè si sarebbe potuto riutilizzare anche il giorno dopo per la colazione (ma allora anche nel caso che si fosse buttato via, sarebbe dovuto sorgere lo stesso SdC, invece, no!), dando quindi per scontato che non si è prodotto alcun danno per chicchessia e che l’insorgere del SdC sarebbe imputabile soltanto al fatto di aver trasgredito una regola, si analizzi il caso. Il cuoco ha bevuto il caffè ormai da buttare (era uno solo, non conveniva metterlo in un tegamino – principio economico sia per il lavoro successivo di risciacquarlo quanto per il costo del detersivo e dell’usura del tegamino…(!)) trasgredendo ad una esplicita regola della vita comunitaria. Perciò egli deve comunicare il SdC che sta provando. Il cuoco può provare o meno questo SdC, resta il fatto che egli sia obbligato a comunicarlo. Se le prime volte egli non lo farà (è un dato statistico, che non lo farà), dopo un certo periodo di permanenza in comunità, egli tenderà ad evitare di bere il caffè (contravvenendo quindi alle regole di economicità che contraddistinguono quasi sempre il nostro agire) ma quando lo facesse (e lo farà, nel suo protrarsi di vita comunitaria, più di una volta) nell’80 ed anche nel 90% dei casi, andrebbe a comunicarlo. O, meglio, andrebbe a comunicare il senso di colpa che gli deriva dall’averlo fatto. E, ancora seguendo questa scansione temporale, ci si accorgerebbe che dapprima egli comunicherebbe un SdC che in realtà non sente, mentre con l’andar del tempo egli comunicherebbe realmente: né più né meno ciò che realmente sente. Si dovrebbe quindi dire che la comunità sta funzionando, in quanto che, l’individuo (il cuoco del nostro esempio) sta assimilando i concetti, le regole della co-munità tanto da farli prevalere sui suoi stessi principi di economicità che, mi pare anche a livello scientifico, vengono spesso rintracciati quali biologici. Forza del convincimento! Dicendo a questo proposito (del convincimento) che non trovo argomenti correlabili nel pur interessante libro di R.Cialdini , e che potrei tutt’al più riferirmi all’interpretazione del senso di equità di Castelfranchi, sospendo questo lavoro di così grande interesse e “passione” con la promessa, a me stesso, di riprenderlo non appena le condizioni di impegni minori me lo permetteranno.

L’ultima parte che segue, è precedente a questa appena letta, e siccome frutto di fatica e, spero anche degna di qualche nota, la lascio. Appendice Cosa siano e quali le terapie, o meglio le diverse pratiche terapeutiche, che compongono un programma di recupero propriamente detto (che, per inciso, solitamente abbraccia un periodo di tempo che va da un anno e mezzo a tre, quattro anni) non è mio interesse dire nel particolare. E’ invece mio proposito quello di andare ad indagarne alcuni che cercherò di colle-gare ai pochi strumenti che la psicologia cognitiva mi ha, finora, messo in grado di usare. Il lavoro di gruppo è cardine dei programmi Ce.I.S.. In questi gruppi (ce ne sono di diverso tipo: da quelli di preparazione a quelli terapeutici veri e propri) si consente ad una serie di soggetti messi insieme dagli operatori di intraprendere un cammino parallelo che li porta ad affrontare, assieme e mano a mano, gli aspetti più contraddetti del loro proprio comportamento. Per fare un esempio si pensi che si fanno durante il programma gruppi di sessualità, di regressione, di violenza, ecc. Questi gruppi, che hanno molto spesso una origine scientifica e terapeutica già dimostrata ed acclamata, hanno però la caratteristica, in questi casi specifici – perché le stesse terapie possono essere condotte anche al di fuori delle comunbità – di essere pratica di persone che vivono tra di loro e con nessun altro che loro, in una condizione protetta, ma aliena alla realtà circostante. Ciò significa, anche, non certo soltanto, che i risultati terapeutici di tali attività, vengono ad esprimersi e, vorrei osare, ad introiettarsi, alla luce di un ambiente, di una situazione che in quanto protetta, non permette loro di risultare con la stessa efficacia indipendentemente dalla situazione contingente. Questo può certo stare anche alla base dei numerosissimi insuccessi di tali programmi di recupero, nonché dell’interessantissimo e poco analizzato fenomeno della “sindrome di dipendenza” da comunità
Bibliografia

J. G. Benjafield: Psicologia dei processi cognitivi, Il Mulino 1995

C. Castelfranchi-R. D’Amico-I. Poggi: Sensi di Colpa, Giunti 1994

R. Cialdini: Le armi della persuasione, Giunti 1991

M. Miceli-C. Castelfranchi: Le difese della mente (i capitoli: 10: Difese dal senso di colpa e 11: Il ruolo dell’autoimmaginazione), NIS 1995

R. Brown: Psicologia sociale dei gruppi. Dinamiche intragruppo e intergruppi (i capp. 1: La realtà dei gruppi, 2: Processi elementari nei gruppi, 6: Pregiudizio e scontento sociale, 8: Categorizzazione sociale, identificazione sociale e relazioni intergruppi.

Don Bruno Frediani: “Progetto Uomo” cicl. in proprio, Lucca 1978

Senzamargine: bimestrale del Cesers Centro Studi e Ricerche Sociali, Bottega della Solidarietà

 

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